Amado mio / Atti impuri Su Pier Paolo Pasolini...

Il sogno di una cosa fu il primo esperimento narrativo di Pasolini, composto nel '49-'50, a seguito degli avvenimenti italiani del '48-'49, quando il 'Lodo De Gasperi', che stabiliva rapporti di lavoro più equi tra proprietari terrieri e contadini, spinse questi ultimi a rivendicarne l'osservanza da parte dei recalcitranti padroni friulani. La storia è quasi completamente ambientata nelle campagne friulane, tra i contadini che si incontrano alle sagre di paese, vivono rapporti semplici e genuini, e cercano di migliorare la propria vita emigrando, cercando lavoro nelle miniere o reclamandolo con azioni politiche, sempre intenzionalmente pacifiche. Il mondo contadino ritratto da Pasolini appare come il vero depositario dei valori positivi: l'amicizia, l'amore, la solidarietà, la famiglia. Protagonisti principali sono tre ragazzi di paese che diventano amici durante la prima sagra, episodio d'apertura del romanzo. Un esempio della genuinità di sensazioni e sentimenti lo possiamo cogliere immediatamente, nella fase iniziale di questa amicizia: «Ormai l'amicizia era fatta: era tanto che i due giovani desideravano conoscersi, che si guardavano: una volta c'era stata anche quasi una lite tra di loro per colpa di una involontaria spinta che si erano dati ballando: ed era da allora che si erano fatti amici. Adesso, dopo le prime parole, cominciava a entrare nei loro discorsi un entusiasmo, un calore che rendeva bella qualsiasi cosa: l'idea di andare a bere un bicchiere, la più comune che si potesse avere in quel momento, gli parve stupenda; e specie dopo che ebbero bevuto non uno, ma due o tre bicchieri di vino, pendevano uno dalle labbra dell'altro come se certe cose, l'organizzazione di una sagra, la bravura di un'orchestrina da ballo e le ragazze di Gruaro, fossero argomenti trattati per la prima volta dalla creazione del mondo». (pag. 22)Non c'è mai finzione o sotterfugio: ciò che questi personaggi dicono è esattamente ciò che pensano; tutto è trasparenza, non c'è mediazione, forse perché non possiedono quella malizia tipica delle menti abituate a pensare troppo. La vita, dalle loro parti, è veramente ridotta all'essenza: basta una bottiglia di vino, un'armonica e un po' di gente per dare una svolta a una serata, a un pomeriggio; basta vedere l'ingiusta ricchezza dei proprietari terrieri per far loro decidere che è giunto il momento di agire, non per un'ideale comunista del quale sono culturalmente coscienti, ma per un comunismo che hanno dentro se stessi, una coscienza di classe che va al di là degli altisonanti discorsi politici. Non è un romanzo dalle grandi parole o dalle grandi strategie politiche, non c'è un leader a dirigere le azioni, ma semplicemente il popolo che cerca giustizia, e che lo fa nel suo tipico modo genuino, a volte intimidito da chi ha il potere, a volte incoraggiato dalla vicinanza degli altri. Pasolini amava ritrarre la gente delle classi più semplici (per semplici intendo meno mascherate, più facili da avvicinare). Questo suo amore lo ha dimostrato anche con Ragazzi di Vita e Una Vita Violenta, attraverso la gente di paese e di borgata i suoi romanzi riescono a trasmettere l'immediatezza della vita quotidiana e a farci sentire una certa nostalgia per un tipo di rapporti umani più genuino. Una particolarità che ho notato e che mi ha fatto pensare a quanto questi rapporti fossero fondamentali in Pasolini, è la presenza, ne Il Sogno di una Cosa, del vino: colore e calore vivo, sempre pronto a fungere da collante per un paio d'ore da trascorrere insieme. L'effetto 'loquacizzante' del vino è conosciuto a tutti, ma in questo testo ha un ruolo primario: quando i protagonisti vengono ritratti nella loro vita quotidiana o in particolari momenti festosi, li troviamo sempre attorno a un tavolo o davanti a un camino a bere tutti insieme; quando la situazione si fa difficile, non bevono più, il vino sparisce e con esso calore e colore. Il bere e il mangiare sono due degli aspetti al centro della vita di tutti gli uomini, ma in genere nei romanzi sono momenti della giornata che vengono trascurati per privilegiare quella che è la trama principale. Una delle differenze tra homo sapiens (l'uomo reale, in carne ed ossa) e homo fictus (l'uomo fabbricato, inventato, il personaggio) sta nel fatto che l'uomo reale mangia, beve e dorme, mentre il personaggio dei romanzi non viene quasi mai descritto mentre svolge queste azioni, considerate tempi morti ai fini di una trama. Se ci rendiamo conto di quanto invece in Pasolini ci sia attenzione per questi sacrosanti momenti della giornata di un uomo, sia esso sapiens che fictus, arriviamo facilmente alla conclusione che i suoi personaggi non vivono d'aria, ma di pane, carne e vino come noi stessi, e per questo ci capita di sorridere più spesso quando leggiamo storie come questa, in cui riconosciamo i nostri momenti più 'rustici', in cui non dobbiamo riflettere sul senso delle parole di un dato personaggio che dovrebbe trasmetterci chissà quale messaggio filosofico, ma semplicemente lasciarci trasportare dalle parole dei protagonisti e entrare nel loro mondo.

Teoria dei due paradisi

C’era un’alleanza dei sensi 
dovuta all’adorazione unica di qualcosa di eretto, 
in quel mondo 
che aveva un lineamento solo, come il deserto 
in un colore leonino, caldo di un sesso sconosciuto 
come una stella di cui sia rimasta la sola luce 
– era  era la stagione del sole. 
In quella luce arancione e senza fine, 
nel cerchio del deserto come un grembo potente, 
all’oscuro delle erezioni paterne ma nel loro calore 
(quasi di toro ingenuo, di uomo tosato come i giovani), 
il bambino godeva il paradiso: la protezione 
aveva un sorriso di coscritto, la pazienza di un re, 
ed Egli stava lontano, o arrivava forse con un viso 
lievemente ironico, com’è sempre chi protegge 
il debole, il tenerino – ch’è quasi una donna. 
L’odio sorse improvviso, e senza ragione. 
Il bambino odiò forse quell’uomo 
per la sua troppa innocenza. 

Il grembo ch’era come un sole coperto da nuvole 
dolci e potenti, il grembo di quell’uomo lontano, 
divenne un oscuro fondo di calzoni, 
forse s’immiserì, perdette l’innocenza equina, 
non fu che umano. E il bambino obbedì. 
Venne il giorno che cade fuori dalle lontananze 
arancione del deserto, 
si vedono i primi palmizi, 
la prima pista che si perde muta fra le dune. 
E il bambino perdette il paradiso. 
Il padre lo cacciò, punendolo 
per il suo desiderio di essere punito: 
obbedì anch’egli dell’obbedienza del figlio 
(anch’egli aveva un padre?). 
Quel primo paradiso restò così nel deserto 
di una verde regione, 
o di una piccola città di provincia - 
– nelle case dalle tende bianche di una nonna paterna, 
ed altezze impossibili, dove per sempre fu perso 
il calore della fecondità del padre ragazzo. 
Il bambino cadde a capofitto sulla terra, 
perdette il nome di Lucifero e prese, insieme, 
quello di Abele e quello di Caino (così fu almeno 
nelle terre 
tra l’ultimo biancheggiare del mare 
e il primo rosa dei deserti africani). 
Era il nuovo paradiso, e in mezzo 
a primule e viole 
c’era la madre con la sua pelliccia povera 
odorata di precoce primavera. 
Com’era terrestre, dolcemente terrestre 
la sua dolcezza di bambina, che non ha 
orizzonte diverso da quello 
che i genitori, o i fratelli, o il marito le assegnano: 
e rassegnata, ma piena di fantasia, 
sogna, oltre quell’orizzonte, terre solo più felici, 
ed eroiche, 
senza osare desiderarle per sé, 
ma desiderandole solo per quel figlietto al suo fianco, 
anche lui tutto imperlato del fresco delle primule. 
Scorreva un fiume, in quel paradiso, 
e ognuno può dargli il nome che vuole, 
ognuno ha il suo, ch’è sempre lo stesso; 
perché la casa dove la madre e il nuovo padre alloggiano 
dopo il matrimonio, è sempre nei dintorni di un fiume. 
Esso può scorrere tra una campagna potentemente verde 
oppure tra le dune delle rive del mare: 
o può essere pargolo 
tra rocce sparse a caso al sole. 
Non importa. Intorno a quel fiume profondo e verde, 
oppure magro d’acqua tra i sassi asciutti, 
crescono da soli i frutti, e hanno nomi di paradiso, 
mele, uva, ciliegie. E i fiori, gli inutili fiori, 
non montano meno di loro: e anche i loro nomi 
sono meravigliosi, primule, appunto, o girasoli, 
o le rose di macchia, con quei petali che si sfanno 
tra le spine, o i bucaneve, o i fiori dei tigli... 
Anche il sole è una creatura amica, 
addolcita dall’indifesa idea che la madre 
comunica al piccolo figlio coraggioso al suo fianco; 
e come nasce al mattino, muore alla sera, 
e lascia il posto a quelle stelle che il bambino 
deve appena vedere, e lasciare ai loro silenzi. 
Ma non tutte le madri sono innocenti!
E anche la più innocente delle madri 
– e non si sa come possa averlo fatto – 
è sottostata a ciò che per il figlio 
è spaventoso scandalo. 
Un usignolo cantava disperato 
anche quando nessuno l’udiva 
ai margini del paradiso. 
E lo stesso odio senza ragione, 
nato da solo, come un frutto o un fiore 
del paradiso terrestre – rinacque. 
La nostra vita è un folle identificarsi 
con coloro che qualcosa di immensamente nostro 
ci mette accanto. 
Fummo, così, la madre che pecca davanti al frutto 
del pianto senza perdono, al frutto 
ignoto a noi, terrorizzati dal suo mistero 
che resuscitava i giorni del padre 
– anteriori a quelli del paradiso terrestre. 
Risplendette di nuovo il sole del deserto 
su quel piccolo pomo umano, meta di povera gola. 
Ma era terrificante, 
come appunto, il sole di un altro tempo, 
di un altro mondo: 
il solito sole di ogni giorno se ne stava 
in disparte, segregato come in un improvviso dicembre, 
e l’altro fiammeggiava; solleone e peste; 
a creare un profondo silenzio, 
e la mamma, ch’ era il suo bambino, 
addentò con materna innocenza e figliale malizia 
quel frutto estivo. 
Subito il nuovo padre – che in confronto all’ antico 
era come questo gramo sole d’inverno in confronto 
a quello che fiammeggiava su lui, delle Prime Estati – 
seguì il suo esempio, umile uomo della terra, 
facilmente tentato e facilmente corrotto. 
Anche con lui ci eravamo identificati 
perché, in quanto noi stessi, non potevamo esistere: 
potevamo esistere solo se eravamo il padre, la madre. 
Peccammo con le loro bocche, con le loro mani. 
E il Primo Padre ci cacciò.
Perdemmo così anche il secondo paradiso. 
Due sono dunque i paradisi che noi abbiamo perduto! 
Stretti per mano alla madre 
prendemmo le strade del mondo. 
Lucifero si staccò da Abele 
e seguì il suo destino 
finendo nel buio più profondo. 
Abele morì 
ucciso da se stesso col forne di Caino. 
Insomma non restò che un figlio, 
un figlio solo. 
Questo almeno è avvenuto nelle terre 
dove dodicimila anni fa si ebbe la prima seminagione, 
e, dopo un millennio da questo avvenimento, 
fu nominato un re padrone degli uomini moltiplicati, 
tra l’ultimo biancheggiare del mare e il primo 
rosa del deserto. Quanto vasellame colorato! 
Dovemmo guadagnarci la vita: 
questo ci tolse a noi, e fu ed è il primo inferno 
– questo, questo, che tu visiti e ricordi. 
Ma sotto all’inferno c’è un altro inferno, 
come prima del paradiso c’era un altro paradiso. 
E come non puoi avere che un’ombra di memoria 
di quel paradiso, così non puoi avere che un vago 
sospetto di questo secondo inferno: che vivi 
e non sai, 
e tolto a te stesso, povero figlio 
con una falsa idea di sé, 
con un insignificante ricordo 
di genitori invecchiati o morti, 
con una vita quotidiana dove il lavoro 
(tranne i rari casi in cui è un ornamento del sesso) 
è una necessità della vita che annienta la vita.