Alexander Sokurov was born in 1951 in Russia in the village of Podorvikha (Irkutsk district). His father was a military officer, a veteran of World War II. During Sokurov's childhood his family frequently moved from one place to another, thus he first went to school in Poland and graduated in Turkmenia.

After graduating from high school in 1968, the future filmmaker entered Gorky University (Department of History). While a student he began working as a staff member for the Gorky television — first as a producer's technical assistant and later as a producer's assistant. During his work at the television station Sokurov obtained wide experience in film and television technology; and, at the age of 19, he made his first television shows as a producer.
In the course of 6 years at the Gorky television Sokurov created several films and live TV shows. In 1974 he got his first degree in History from the Gorky University.
In 1975 Sokurov entered the Producer's Department at the All-Union Cinematography Institute (VGIK, Moscow) (Documentary Film studio of Alexander Zguridi).
As an excellent student of VGIK he was granted the Eisenstein Scholarship.
In 1979 Sokurov had to pass external exams and to graduate from VGIK one year early because of his conflict with the administration of the Institute and the leadership of Goskino (State Office of Cinematography): his student works in cinematography were deemed unacceptable, and he was accused of formalism and anti-Soviet views.

His first feature film, which later received a number of awards, was “The Lonely Voice of a Man,” after an original story by the Russian writer Andrey Platonov; it was not accepted as a graduating project. It was at that time that he received support from the outstanding film director Andrey Tarkovsky, who was out of favor with the authorities at that time and very highly appreciated Sokurov's first work. Sokurov's friendship with Tarkovsky did not come to an end even when the latter left Russia.

With Tarkovsky's recommendation letter Sokurov was employed by the film studio “Lenfilm” in 1980, where he worked on his first feature films. At the same time Sokurov worked at the Leningrad Studio for Documentary Films, where he has made all of his documentaries at different times.

Even Sokurov's first films in Leningrad caused negative feedback from the communist party leadership of the city and from the Goskino. For a long time (until the period of democratic reforms in the mid-80s) none of his films were approved for public screening by Soviet censors.

In the late 80s a number of his early feature and documentary films were released for public performance and represented the Russian film industry at many international festivals. In the 80-90s he sometimes made several feature and documentary films in one year.

At the same time Sokurov was involved in non-commercial programs for youth on the radio and taught a class in Film Directing for young people at the Lenfilm Studio. In 1998-1999 he conducted a television show, “Ostrov Sokurova” (Sokurov's Island) where the issue of the place of cinematography in modern culture was raised.

In the mid-90s together with his colleagues Sokurov began to familiarize himself with video technologies. This process continues today. The filmmaker has produced a number of documentary films. Several of them were made in Japan for Japanese TV companies due to the enthusiasm and generosity of Sokurov's Japanese friends.

He has been a participant and laureate of many international festivals. Every year his films are shown in various foreign countries.

Several times he has received awards from international festivals: the FIPRESSI Award, the Tarkovsky Award, the Russian State Award (1997) and the Vatican Award, “Third Millennium” (1998).

In 1995 the European Film Academy listed Sokurov as being among the best 100 directors of world cinema.

At the present moment he is in the process of founding a film studio, “Bereg,” for non-commercial feature and documentary films. The foundation for this venture is laid by Sokurov's camera crew at “Lenfilm”. The studio has no governmental or private funding.
Mr. Alexander Sokurov
Film–maker

E-mail:alexander@sokurov.spb.ru
Feature Films

The Lonely Voice of Man
1978–1987, 87 min., colour
Lenfilm, icw the Film Makers' Union

The Degraded
1980, 30 min., colour
Mosfilm, with the participation of Lenfilm

Painful Indifference
(Anaestesia Psychica Dolorosa)
1983–1987, 110 min., colour
Lenfilm icw the Film Makers'

Empire
1986, 35 min., colour
Lenfilm

Days of Eclipse
1988, 137 min., colour
Lenfilm

Save and Protect
1989, 168 min., colour
Lenfilm commissioned by the Videofilm Corp.,
Interpromex Ind. GmbH

Mozart Requiem

Uno degli eventi più attesi della sezione "Fuori concorso" del Torino Film Festival 2004 era la proiezione in anteprima mondiale dell'ultimo lavoro di Aleksandr Sokurov, regista russo segnalatosi negli ultimi anni con opere quali Arca Russa (2002) e Father and Son (2003), e al quale già lo scorso anno il Festival aveva dedicato una retrospettiva completa.

Mozart Requiem è la registrazione, ripresa con cinque telecamere, della celeberrima opera incompiuta di W.A. Mozart, messa in scena il 3 febbraio 2004 alla Filarmonica di San Pietroburgo e realizzata dal regista stesso. Un film di poco più di un'ora, girato in video, che mostra l'interpretazione delle soliste del teatro Mariinskij e del coro da camera, guidati dal direttore Valentin Nesterov, un ensemble in grado di presentare l'intera esecuzione del capolavoro mozartiano.

Sokurov stabilisce fin da subito lo spazio visivo del film, con una prima inquadratura che mostra i grandi lampadari che dominano la piccola sala dall'alto del soffitto. Lo spazio viene poi dettagliato con un montaggio lento e costruito, che ci avvicina al luogo della rappresentazione, passando attraverso rapide carrellate che indagano i volti degli spettatori e la loro attesa prima dell'inizio dell'esecuzione.

Qui il cinema e la musica classica trovano davvero un connubio esemplare, attraverso l'incalzante susseguirsi delle note, delle voci che si sovrappongono alle voci secondo una progressione che conduce al gran finale. Sokurov segue e accompagna l'incalzare della musica con un montaggio istintivo e mutevole, spostandosi dai personaggi sul proscenio, in perenne movimento, alla fissità del pubblico, del quale mostra i volti attoniti e compassati, le espressioni, la partecipazione emotiva all'evento. Ogni elemento contribuisce a trasmettere la percezione dell'esperienza sensoriale sperimentata dal pubblico presente; da un lato le inquadrature, sempre alla ricerca dell'immagine più carica di vibrante significato, capace di offrire e restituire l'intensità generata dalla musica, dalle evoluzioni dell'orchestra; dall'altro la luce e il colore, attraverso un gioco di chiaroscuri ora tenui ora più accentuati, che spesso isolano gli attori dallo spazio e a volte, invece, sembrano fonderli con la scenografia che sta alle loro spalle.

Il lavoro di Sokurov è a tratti invisibile, a tratti invece palese e carico di senso, e tende a far emergere quel surplus di significato che la ripresa cinematografica di un lavoro teatrale inevitabilmente comporta. Come se il regista russo avesse inteso reiterare, con l'ausilio di cinque punti di vista diversi, una visione già messa in mostra con l'allestimento teatrale, della quale il lavoro filmico amplifica la sperimentazione sul piano puramente spettacolare.

Come ha messo in luce il regista stesso, "la caratteristica principale dell'interpretazione è che il coro non è fermo, ma si sposta sulla scena", e ancora "i pietroburghesi venuti ad assistere allo spettacolo sono anche i personaggi del film". Mozart Requiem è quindi una doppia riflessione, sia sul concerto lirico, la sua esecuzione, la sua rappresentazione scenica, sia anche sulla presenza attiva e partecipe del pubblico e sulla stretta connessione con i protagonisti dell'opera, due elementi che Sokurov lega magistralmente con l'ausilio del mezzo espressivo cinematografico. La mobilità del coro aumenta la dinamicità di una rappresentazione altrimenti irrigidita nel contrappunto di voci maschili e femminili, ma dal coro si stagliano poi i solisti, che Sokurov avviluppa in una rete di inquadrature, mostrandone tutte le sfaccettature.

Mozart Requiem, sobrio, elegante e formalmente impeccabile, vera e propria "rappresentazione della rappresentazione", aggiunge allo sguardo del regista teatrale altri sguardi, che diventano parte integrante dello spettacolo stesso, tanto che risulta difficile, alla fine, scomporre individualmente i punti di vista. Il risultato è uno sguardo molteplice, frammentato, che non impedisce però di godere pienamente del Requiem mozartiano in tutta la sua innegabile organicità.

Uno degli eventi più attesi della sezione "Fuori concorso" del Torino Film Festival 2004 era la proiezione in anteprima mondiale dell'ultimo lavoro di Aleksandr Sokurov, regista russo segnalatosi negli ultimi anni con opere quali Arca Russa (2002) e Father and Son (2003), e al quale già lo scorso anno il Festival aveva dedicato una retrospettiva completa.

Mozart Requiem è la registrazione, ripresa con cinque telecamere, della celeberrima opera incompiuta di W.A. Mozart, messa in scena il 3 febbraio 2004 alla Filarmonica di San Pietroburgo e realizzata dal regista stesso. Un film di poco più di un'ora, girato in video, che mostra l'interpretazione delle soliste del teatro Mariinskij e del coro da camera, guidati dal direttore Valentin Nesterov, un ensemble in grado di presentare l'intera esecuzione del capolavoro mozartiano.

Sokurov stabilisce fin da subito lo spazio visivo del film, con una prima inquadratura che mostra i grandi lampadari che dominano la piccola sala dall'alto del soffitto. Lo spazio viene poi dettagliato con un montaggio lento e costruito, che ci avvicina al luogo della rappresentazione, passando attraverso rapide carrellate che indagano i volti degli spettatori e la loro attesa prima dell'inizio dell'esecuzione.

Qui il cinema e la musica classica trovano davvero un connubio esemplare, attraverso l'incalzante susseguirsi delle note, delle voci che si sovrappongono alle voci secondo una progressione che conduce al gran finale. Sokurov segue e accompagna l'incalzare della musica con un montaggio istintivo e mutevole, spostandosi dai personaggi sul proscenio, in perenne movimento, alla fissità del pubblico, del quale mostra i volti attoniti e compassati, le espressioni, la partecipazione emotiva all'evento. Ogni elemento contribuisce a trasmettere la percezione dell'esperienza sensoriale sperimentata dal pubblico presente; da un lato le inquadrature, sempre alla ricerca dell'immagine più carica di vibrante significato, capace di offrire e restituire l'intensità generata dalla musica, dalle evoluzioni dell'orchestra; dall'altro la luce e il colore, attraverso un gioco di chiaroscuri ora tenui ora più accentuati, che spesso isolano gli attori dallo spazio e a volte, invece, sembrano fonderli con la scenografia che sta alle loro spalle.

Il lavoro di Sokurov è a tratti invisibile, a tratti invece palese e carico di senso, e tende a far emergere quel surplus di significato che la ripresa cinematografica di un lavoro teatrale inevitabilmente comporta. Come se il regista russo avesse inteso reiterare, con l'ausilio di cinque punti di vista diversi, una visione già messa in mostra con l'allestimento teatrale, della quale il lavoro filmico amplifica la sperimentazione sul piano puramente spettacolare.

Come ha messo in luce il regista stesso, "la caratteristica principale dell'interpretazione è che il coro non è fermo, ma si sposta sulla scena", e ancora "i pietroburghesi venuti ad assistere allo spettacolo sono anche i personaggi del film". Mozart Requiem è quindi una doppia riflessione, sia sul concerto lirico, la sua esecuzione, la sua rappresentazione scenica, sia anche sulla presenza attiva e partecipe del pubblico e sulla stretta connessione con i protagonisti dell'opera, due elementi che Sokurov lega magistralmente con l'ausilio del mezzo espressivo cinematografico. La mobilità del coro aumenta la dinamicità di una rappresentazione altrimenti irrigidita nel contrappunto di voci maschili e femminili, ma dal coro si stagliano poi i solisti, che Sokurov avviluppa in una rete di inquadrature, mostrandone tutte le sfaccettature.

Mozart Requiem, sobrio, elegante e formalmente impeccabile, vera e propria "rappresentazione della rappresentazione", aggiunge allo sguardo del regista teatrale altri sguardi, che diventano parte integrante dello spettacolo stesso, tanto che risulta difficile, alla fine, scomporre individualmente i punti di vista. Il risultato è uno sguardo molteplice, frammentato, che non impedisce però di godere pienamente del Requiem mozartiano in tutta la sua innegabile organicità.


The Second Circle
1990, 92 min., colour
Center for Creative Initiatives LO SFK,
Cinema Club Mirror (Syktyvkar), Film studio
Troitsky Most (Lenfilm)
A solitary figure trudges through the inclement weather of a vast, remote Siberian wilderness. An unyielding gust of wind brings the young man (Pyotr Aleksandrov) to his knees as he attempts to avert the caustic, sustained force of the snowstorm, momentarily obscuring him from view, erased from the harsh and desolate landscape. The stark, monochromatic image of the film then cuts to an ironically appropriate impersonal and nondescript official title sequence, as the premature sound of a knock on a door seemingly intrudes on the necessity to present information on the film's certification. It is a subtle reminder of life's evolving process: the intrusive nature and unexpected inevitability of death. The film reopens to a jarring, oddly lit image of the gaunt young man standing by the foot of his father's bed in a cramped and squalid apartment. The dispatched medical technicians dispassionately confirm his father's death from natural causes, but explain that they cannot issue a death certificate, pragmatically remarking "You should have placed him in a hospital. Everything would have been easier then." Left alone in the apartment, the son compassionately observes his father's inanimate countenance before preparing his father's body for burial: selecting his best suit, bathing him in the snow in the absence of running water in the apartment, transporting his father's body to the outpatient clinic for a death certificate examination. Without knowing the actual cause of death, the doctor suggests a beaurocratically expedient determination of cancer, rationalizing that "now everything is considered cancer." Having been issued a death certificate, the son then meets with the undertaker (Nadezhda Rodnova), an abrasive and insensitive businesswoman who is quick to assess the family's limited means and treats the overwhelmed young man with disrespect and open hostility, especially as the financially strapped son begins to question some ancillary costs included in the itemized funeral bill. As the dutiful son continues to encounter emotional isolation, antipathy, and an impersonal commodification of the burial process, can he restore the sanctity of the ritual and retain the dignity of his beloved father's memory?

Aleksandr Sokurov creates a haunting, austere, and emotionally honest examination of death, bereavement, and loneliness in The Second Circle. The title of the film refers to the second circle of hell depicted in The Divine Comedy, Volume I: Inferno by Dante Alighieri, the realm of damnation where the souls (of the lustful) are punished by the eternal lashing of a raging, infernal storm (note the referential parallel imagery of the opening blizzard scene). Using high contrast, raw, monochromatic imagery, and spare, but deliberate use of close-up shots, Sokurov reflects the soul's innate longing for compassion, human decency, and spiritual communion in an increasingly amoral, apathetic, and materialistic society: the atypical rapid intercutting of medium and long shots as the son washes his father's body in the snow; the innocent reassurance of the doctor's young son, Seyozha, who attempts to comfort him by saying "everything's going to be all right"; the chaotic and near violent bus ride that results in theft; the extended shot of the son's long, melancholic gaze after opening his father's eyes for a final glimpse. Inevitably, the doctor's parting words, "the most terrible thing has been left behind" echoes the resigned sentiment of the epilogue verse "Lucky are the nearest and dearest of ours who died before us" - a prophetic observation of the painful and isolating process of grief, longing, and survival.

Stone
1992, 84 min., b/w
International Studio of Perm icw Lenfilm

Whispering Pages
(Verborgene Seiten)
based on the works of Russian writers of the XIX century
1993, 77 min., colour
North Foundation, ESKOMFILM, zero film, icw Lenfilm

Mother and Son
1996, 67 min., colour, Dolby stereo
North Foundation, zero film, GOSKINO, icw Lenfilm
Mother and Son opens with a languorously sublime image of a man and a woman; their physical forms distorted through an anamorphic lens. A son (Alexei Anashinov) attends to his terminally ill mother (Gudrun Geyer) at a remote house in the Russian countryside. He whispers to her, combs her hair, talks her through an asphyxiating attack. When she wishes to be taken outdoors, he dutifully cradles her in his arms and carries her to the open fields. He takes her to a nearby bench and reads an old postcard to her. He asks about the identity of the author, and her response is vague. He does not probe for more information, but accepts the comfortable silence - perhaps, because he already understands her, and elaboration is moot. After taking a brief nap, he carries her to a wooded area where she can rest against a tree and absorb the beauty of nature. And it is a wondrous sight to behold. The characters linger in the hypnotic, mesmerizing images of the dynamic landscape. After touring the countryside, they return home. She expresses her fear of dying, and he responds that death, like life, has no transcendental meaning. After his mother falls asleep, he ventures into the countryside alone, and grieves under the weight of tragic inevitability.

Beyond the pervasive silence of precise language and profound symbiotic connection lie the ethereal, intoxicating images that populate the spare, atmospheric canvas of Aleksandr Sokurov's Mother and Son. The stark, impressionistic landscape, intensely reminiscent of German Romanticism, echoes the natural scenes of Werner Herzog, and serves as a metaphor for the turmoil of the soul. The turbulent skies swirl, the blades of grass bend with the wind, the leaves rustle, the landscape colors shift and transform. Similar to the films of Ingmar Bergman and Andrei Tarkovsky, minimal dialogue and extended silence pervade the film. In essence, despite the son's consuming attention and sympathetic understanding for his beloved mother, death remains as a personal, and inherently, isolating experience for both the victim and the survivor. On two occasions, a train traverses the landscape from a distance. It is a fleeting glimpse of the world outside their devoted intimacy. It is a reflection of their own journey through the enigmatic terrain of life and death, suffering and loss - first, together, then apart. It is their personal journey.

Moloch
1999, 102 min., colour, Dolby stereo
Lenfilm, zero film, Fusion Product

Taurus
film: 94 min., colour, Dolby digital
video: 2 parts (52 min. each), Betacam SP, Dolby Surround
Lenfilm, Ministry of Culture of the Russian Federation
State Committee of Cinematography of Russia

Taurus è il secondo film della trilogia di Alexander Sokurov sui totalitarismi del ventesimo secolo. Dopo aver raccontato in Moloch i rapporti tra Adolf Hitler ed Eva Braun, il regista russo ci mostra questa volta gli ultimi giorni di vita di Lenin. Come nel precedente film anche in Taurus tutta la rappresentazione gira intorno all'idea imminente della morte. Ma a differenza del Hitler di Moloch, che credeva di poter sconfiggere tutto, compresa la morte, il Lenin di Sokurov è un vecchio ormai malato che non aspetta altro che la morte per porre fine alle sue sofferenze. Non c'è una trama che si sviluppa, ma si tratta solamente della rappresentazione di un momento preciso nella storia di un uomo e di un popolo. Rinchiuso nella sua tenuta di campagna e circondato dalla moglie, dal medico e dalle guardie del corpo, Lenin semiparalizzato dalla malattia si interroga sul futuro senza di lui. Ormai non ha più nessuno controllo sul mondo che lo circonda, ne nella casa in cui vive recluso ne nel partito, in cui un giovane Stalin sta iniziando la sua scalata al potere. Il politburo, e Trotzki in particolare, non vuole nemmeno dare la possibilità del suicidio al vecchio rivoluzionario. Il medico che lo cura teme per il proprio futuro, le guardie del corpo si preoccupano solamente di apparire in fotografia con il leader russo, l'unica persona che sembra provare dell'affetto per il povero Lenin è la vecchia moglie, sempre pronta a consolarlo nei suoi momenti di solipsistica depressione, ma nel momento in cui giunge una telefonata da Mosca, dal centro del potere, lo abbandona solo in mezzo alla pioggia.
Sokurov ama raccontare i grandi personaggi storici nelle loro squallide piccolezze quotidiane. Ma se in Moloch alla fine si scopriva un Hitler misero, vigliacco, morboso e terrorizzante il Lenin mostrato da Sokurov è una figura patetica, quasi simpatica, nel suo tentativo di fare un bilancio della propria vita e di correggere i propri errori.
Taurus è un film lento, ovattato, volutamente disturbante e grandioso come il personaggio che racconta.

Russian Ark
film: 2002, 99 min., 35 mm, colour, Dolby Digital
video: 2002, 95 min., HD, 16:9, Dolby Surround
The State Hermitage Museum, Hermitage Bridge Studio, Egoli Tossell Film AG production, Ministry of Culture of the Russian Federation, Fora–Film M, Celluloid Dreams

Father and Son
2003, 94 min., 35 mm, colour, Dolby Digital
zero film, Nikola-film,
Ministry of Culture of the Russian Federation
Come un sogno, un pensiero sottile, questo film ci riporta a vagare nelle leggerezze di un cinema fatto di aria, di luce, di attese e di sguardi. Sokurov gira la sua elegia forse più personale perché il suo sguardo pare completamente rivolto all’interno, intro-verso in una dimensione di ascolto nell’intimità di un silenzio generoso e ricco di senso Fa pensare subito a Madre e figlio l’inizio del nuovo, stupendo film di Alexander Sokurov. Fin dal titolo Father and son sembra voler offrire un omaggio a quel film cosi’ intimo, fragile e al tempo stesso intenso e denso di vita, morte, sentimenti e sensazioni da trasmettere. Come un sogno, un pensiero sottile, questo film ci riporta a vagare nelle leggerezze di un cinema fatto di aria, di luce, di attese e di sguardi. Lo sguardo, soprattutto, è il nodo centrale, l’origine del movimento e la spinta alla riflessione, oggetto aereo da guardare, per restarne incantati e condividere con esso istanti di interminabile delicatezza. Un padre e un figlio vivono nella loro piccola casa, in cima ad un palazzo, proteso sul mare e spinto con fermezza contro il cielo. Il loro e’ un rapporto di incredibile tenerezza, di amore incondizionato e di parole, dialoghi con i quali descrivono se stessi e il mondo che vedono intorno a loro, come un diario scritto in penombra e letto a mezza voce e fuori sincrono, come un pensiero che vaga nell’aria trasportato dal vento. Sui tetti di una città, che è Lisbona o San Pietroburgo, o una città immaginaria impressa nella memoria e nel desiderio, Sokurov gira la sua elegia forse più personale perchè il suo sguardo pare completamente rivolto all’interno, intro-verso in una dimensione di ascolto nell’intimità di un silenzio generoso e ricco di senso. Father and son è film sul corpo che si fa incorporeo, che si ingloba nella luminosità abbagliante di un mattino sorpreso dalla neve improvvisa che cade sui tetti, è opera fresca perchè scritta sullo schermo come se fosse un dipinto, un autoritratto da scoprire tra le lievi ombre, nei silenzi che si fanno, anch’essi, immagine. Ma è anche film di forti sensazioni, paradossalmente fisiche, con l’allusione ad una malattia accennata, vera, falsa, con le radiografie che accennano ad una vecchia ferita, forse guarita del tutto, forse profondamente ancora radicata nella memoria, certo, anche fisica, del protagonista. Torna in mente Povinnost, per la solitudine dei luoghi descritti, per la esclusività del rapporto tra padre e figlio, che sono anche, contemporaneamente, fratelli, amanti.

Documentaries

Maria (Peasant Elegy) 1978–1988, 41 min., colour
LSDF
Maria – Elegia contadina è un lavoro atipico e piuttosto ostico. Sviluppato nell’arco di 9 anni, il film si presenta diviso in due parti, con uno scarto linguistico e figurativo notevole. In origine, comunque, esso doveva comprendere solo la prima parte, dato che la seconda è un ritorno sui luoghi delle riprese, una riflessione sullo scorrere del tempo che dà un senso nuovo a quanto visto in precedenza e che regala al tutto una dimensione mitica e universale. Rinnovando la tradizione russa che dai maestri dell’epoca del “montaggio assoluto” passa per Tarkovski e sembra avere ancora oggi naturale evoluzione con l’ultimo vincitore del Festival di Venezia, Garin Zvyagintsev, Sokurov ha sviluppato quasi tutta la sua produzione sulla raffigurazione del proletariato e dei suoi riti, sul rapporto tra l’uomo e la natura, l’uomo e l’industria, l’uomo e la società. Il suo è uno sguardo fortemente estetizzante, d’artista figurativo, e dobbiamo riconoscergli una grande padronanza dei mezzi tecnici .

Effettivamente, però, già da questo documentario datato 1978 (la seconda parte è stata invece realizzata nel 1988), il gusto per la citazione pittorica, per una composizione dell’inquadratura in chiave espressionistica è prevalente e a tratti invadente. Come altre volte, infatti, non convince del troppo l’attrazione di natura direi quasi perversa che il resta nutre verso il triste stato di natura dell’uomo, una sottomissione silenziosa e violenta a un padrone invisibile, una voce dall’alto senza una faccia, un simbolo di una forza incredibile. Il lavoro della terra, il ciclo della natura, il ritratto di una comunità ai confini del mondo sono così tutti simboli di un universo apparentemente senza legge e senza Stato, un Eden inclassificabile e ciclico, sospeso tra terra e cielo senza conoscere alcuna evoluzione.

E’ giusto ricordare che quando il documentario è stato realizzato la Russia era ancora un regime comunista, e i diritti dei lavoratori venivano costantemente calpestati.

Maria Simonaevna è il volto che Sokurov ha scelto per rappresentare quell’umanità dolente pronta a sacrificare tutta la vita per il lavoro e la famiglia. I primi piani, spesso impietosi, ritraggono una vecchiaia precoce, una mestizia evidente ma senza lacrime, una gioia istintiva e fugace. Strettamente ancorata alla terra d’origine (anche perché non conosce altra realtà) e ai propri cari, tra cui una figlia pronta a ripercorrere le sue orme, Maria sembra rappresentare il rapporto simbiotico tra l’uomo e gli eventi naturali. Non a caso quasi tutta la seconda parte del film, nella quale viene narrato il percorso vitale della donna fino ad arrivare alla sua morte prematura, è in bianco e nero, come se il regista avesse sentito il bisogno di condividere un lutto, o la necessità di mostrare un mondo “denaturato”, dove i figli litigano con i padri, la comunità non dialoga e l’ideale progressista rischia di annichilire tutto ciò che di sano e naturale rappresentavano il mondo rurale e i tutti i suoi riti. E’ bello spiare i volti ripresi 10 anni prima mentre guardano se stessi sullo schermo, indagando la propria gestualità, la propria vita passata, e accorgendosi di quanto tutto sia cambiato e di come in realtà tutto sia rimasto così uguale.

Sokurov ha saputo creare un piccolo poema in prosa, un canto per la natura e la Russia in genere, un film per le generazioni che verranno. Una nota curiosa: il film si conclude con la famosissima canzone “Mamma” cantata in italiano, un omaggio a Maria Simonaevna, sicuramente, realmente scomparsa, ma anche, se il nostro non è un abbaglio, alla Russia e a ciò che ha rappresentato proprio nel momento del suo tragico addio (di lì a poco sarebbe crollato il muro di Berlino e con esso l’ideale comunista in Europa).

Sonata for Hitler 1979–1989, 11 min., colour
LSDF

Sonata for Viola. Dmitri Shostakovitch 1981, 80 min., b/w
LSDF

And Nothing More 1982–1987, 70 min., colour
LSDF icw Film Makers' Union

Evening Sacrifice 1984–1987, 20 min., colour
LSDF

Patience Labour 1985–1987, 10 min., colour
LSDF

Elegy 1986, 30 min., b/w
LSDF

Moscow Elegy 1986–1988, 88 min., b/w
LSDF, Film Makers' Union

Petersburg Elegy 1990, 38 min., colour
LSDF, Centre of Creative Initiative LO SFK

Soviet Elegy 1990, 37 min., colour
LSDF

To The Events In Transcaucasia
NEWSREEL No. 5, Special Issue
1990, 10 min., b/w
LSDF

A Simple Elegy
1990, 20 min., b/w
LSDF, Centre for Creative Initiatives LO SFK

A Retrospection of Leningrad (1957–1990)
in 16 parts
1990, 13 hours 08 min., b/w
LSDF

An Example of Intonation
1991, 48 min., b/w
Children and Young Filmstudio (Perm),
Centre for Creative Initiatives LO SFK

Elegy from Russia
1992, 68 min., colour
Cinema committee of the Russian Government,
Lenfilm, LSDF

Soldier's Dream
1995, 12 min., colour, BETACAM SP
North Foundation

Spiritual Voices
in 5 parts (38 min, 33 min, 87 min, 79 min, 90 min)
1995, 327 min., colour, BETACAM SP, Stereo
ESKOMFILM, Lenfilm, Roskomkino, North Foundation, Pandora Co., Ltd (Japan)

Oriental Elegy
1996, 45 min., colour, BETACAM SP, PAL, Stereo
North Foundation, NHK, Lenfilm, SONY Corporation

Hubert Robert. A Fortunate Life
1996, full version – 26 min. (short – 12 min.), colour, BETACAM SP
Hermitage Bridge Studio

A Humble Life
1997, 75 min., colour, BETACAM SP, Stereo
The Japan Foundation, North Foundation,
Pandora Co., Ltd (Japan)

The St. Petersburg Diary
Inauguration of a monument to Dostoevsky
1997, 45 min., colour, BETACAM SP, Stereo
Studio Nadezda

The St. Petersburg Diary
Kosintsev's Flat
1998, 45 min., colour, BETACAM SP, Stereo
Studio Nadezda

Confession
in 5 parts (52 min. each)
1998, 260 min., colour, BETACAM SP, Stereo
Studio Nadezda, Roskomkino
with the participation of Lenfilm

The Dialogues with Solzhenitsyn
1998, 104 min, colour, BETACAM SP, Stereo
Studio Nadezda

dolce…
1999, 60 min, colour, BETACAM SP, Stereo
Studio Bereg, Quest (Japan)

Elegy of a Voyage
2001, 47 min, colour, BETACAM SP, Stereo
Idéale Audience (France), Studio Bereg,
The Kasander Film Company (Holland)

Arca russa di Aleksandr Sokurov
REGIA: Aleksandr SOKUROV; PRODUZIONE: Rus/Ger - 2002; DURATA: 96'; INTERPRETI: Sergej Dontsov, Maria Kuznetsova, Leonid Mozgovoy, David Giorgobiani, Aleksandr Chaban, Maksim Sergeyev, Anna Aleksakhina, Vladimir Baranov, Yuri Khomutyansky, Natalya Nikulenko, Valery Gergeev; SCENEGGIATURA: Boris Khaimsky - Anatoli Nikiforov - Svetlana Proskurina - Aleksandr Sokurov; FOTOGRAFIA: Tilman Buttner; SCENOGRAFIA: Aleksandr Sokurov; MONTAGGIO: Stefan Ciupek - Sergej Ivanov - Betina Kuntzsch; COSTUMI: Maria Grishanova - Lidya Kryukova - Tamara Seferyan; MUSICHE: Sergej Yevtushenko


Sono giorni che girovaghiamo per il dedalo di corridoi di questo immenso centro commerciale dove è locato il Torino Film Festival. Giorni che viviamo con gli occhi puntati sul rosso fuoco degli arrendamenti di questo asettico multisala dove si moltiplicano, oltre alle proiezioni, gli "incidenti di percorso" (sottotitoli assenti in proiezioni importanti, audio che salta, film interrotti a più riprese, o iniziati a proiettare ad oltre 40 minuti dall'inizio...) e le imprecazioni (sacrosante) di chi si vede saltare le programmazioni studiate certosinianamente ogni mattina per ritardi incredibili accumulatisi non si sa bene come né perché. L'avessimo avuta noi la misteriosa guida francese protagonista di "Arca russa", forse, avremmo vissuto meglio questa esperienza festivaliera... Il film di Sokurov, questo film di Sokurov è capace di far dimenticare per un po' tutti i disagi che stiamo patendo.

Gli occhi ci si spalancano sullo splendido museo dell'Hermitage di San Pietroburgo. Ci accompagna quasi tenendoci per mano uno strano fantasma che sembra Virgilio e che invece è qualche misterioso marchese del fu congresso di Vienna. Alle sue spalle la macchina da presa (digitale, ovviamente, anche se il film è stato poi riversato in 35 mm) si muove in unico lungo piano sequenza (96 minuti, nessuno stacco neanche nascosto) attraverso stanze e corridoi. Davanti ai nostri occhi sfilano non più negozi e paninoteche come ci succede regolarmente non appena abbandoniamo per qualche minuto questo multisala, ma le splendide opere custodite nel museo, e insieme ad esse due secoli di storia russa. Sono fantasmi benevoli quelli che si muovono assieme alla nostra guida, mescolandosi coi visitatori dell'epoca moderna. Simulacri ed eterne effigi di un tempo che fu, come le sculture ed i quadri. Custodi della memoria. La "visione" domina lo spazio scenico, e si fa accompagnare dalla "revisione" e dalla "memoria", dunque. Accanto ad una macchina da presa che dichiara apertamente di non riuscire a "vedere", ecco così comparire una donna cieca, custode del museo o di parte di esso, che conosce a menadito le sale e le opere pur senza riuscire a vedere con gli occhi. E' una realtà bellissima quanto agghiacciante quella che ci sfila davanti. Tutto è splendore così come tutto è congelamento nella storia e nella memoria. Impossibile non ripensare, di fronte alle splendide immagini del ballo finale, alla festa nell'Overlook Hotel di "Shining" o al ballo finale di "Cenere e diamanti". Come la si mette si mette, sempre di fantasmi si tratta. Quando usciamo dalla sala con negli occhi lo splendore di quanto abbiamo appena visto il rosso accecante del multisala ci riporta bruscamente alla realtà, e forse il sogno, per quanto di morte, era migliore.

THE IDEA

On the 23rd of December an unprecedented event will take place in St Petersburg. Inside the Hermitage the film director, Alexander Sokurov, will shoot a feature-length film, The Russian Ark, in an hour and a half of real time. The camera will be switched on and ninety minutes later switched off after proceeding through thirty-five rooms, crossing four centuries, and re-enacting history on the grand scale by means of an array of sophisticated effects. As many as eight hundred and fifty actors and extras will take part in some of the scenes in this unique production.

Of course, a film-maker as serious as Sokurov is not really concerned about setting records, in terms of size and quantity, for example. He is motivated more by a sense of artistic purpose, by the idea of making an expansive film, in one breath, as it were. The film, like all films by Sokurov, will contain his visual meditations on the history of the Russian people and the lives of their descendants today, an amazing voyage through war, revolution, and social upheaval, which has left in its wake all the landmarks of a great culture. Like the biblical Ark, the Hermitage has steered a difficult course through the adverse currents of time and tide. A treasure-house of life and art, it is also a testament to the buoyancy of the human spirit.


We have lost or forgotten some of our traditions; we have greatly altered our way of life, for better or for worse; and our social behaviour and attitudes towards each other have changed radically over the centuries. Only the creation of the finest art, architecture, music and literature can sustain the idea of a greater humanity, and give it a point of anchorage for the future, a safe haven from the storm.

Povinnost - Confessione
Anno: 1998 Regista: Aleksandr Sokurov;
Autore Recensione: Marcello Testi
Visto al 51 Festival Internazionale di Locarno

Povinnost' - Confessione di Alexandr Sokurov
sceneggiatura Alexandr Sokurov; fotografia Alexandr Fyodorov; musica Toru Takemitsu, Richard Wagner, Piotr Ilitch Tchaikovski. Russia, 1998, Video, col., 260'

Questo non lo vedrete mai, a meno di qualche follia FuoriOrario in piena notte: è un film a episodi prodotto per la TV russa; nessuna circolazione in sala dunque, ma anche per le televisioni internazionali trovo difficile possa passare questa storia così intimamente russa. Un capitano in servizio con la sua nave all'estremo nord, approfitta delle lunghe notti artiche, dell'indefinitezza del paesaggio per riflettere a lungo e profondamente sulla propria natura di uomo, di soldato, di marinaio; ossessionato da frammenti di Chechov che ripete dentro sé (anche per "esercitare la memoria"), è sospeso tra la contemplazione del mondo esterno all'universo compresso della nave (un mondo che non può conoscere e che immagina statico, quasi insopportabile senza il conforto della letteratura - "spessi libri scritti dagli antichi") e il riflesso della sua gioventù nei volti e nei corpi dei suoi subordinati, quasi tutti marinai di leva.

E' in fondo quest'ultima la parte a cui Sokurov dedica più tempo, come se la narrazione del capitano non fosse che un pretesto (d'altronde, ogni episodio di vita di bordo è introdotto da una sua testimonianza, che si rivela però falsa nel suo svolgersi, visto che la sua visualizzazione prosegue anche indipendentemente dalla presenza del capitano stesso) per raccontare una epopea minore e più vera, quella dei marinai di leva che vivono in questa situazione estrema; situazione che non ha niente di eroico o elegiaco, è calata in una semioscurità e in colori sbiaditi fra cui si vedono a malapena i lineamenti; situazione che agita i dubbi del capitano sulla necessità non d iuna riforma, ma di una reinvenzione dell'esercito, mentre avverte (sicuramente anche a causa del mutato ruolo internazionale del suo paese) una crescente pesantezza, fatica nell'adempimento dei suoi compiti, la difficoltà di giustificarsi in un'istituzione di cui non può fare a meno (salvo smarrire la propria identità) ma che sarebbe tentato di lasciare improvvisamente. Questi pensieri, sul diario del capitano trentenne, assomigliano ai dubbi del suo pari grado di "Linea d'ombra", ma qui la linea è già stata passata, il rito di passaggio, se c'è stato, si è già compiuto e piuttosto che un'avventura proiettata su un domani incerto, questo film si rivela infine costituito delle memorie malinconiche di un giorno come un altro, un giorno a cui il ricordo e l'artico hanno dilatato a dismisura i tempi, un giorno sempre confuso con la notte nell'indefinitezza del cielo grigio scoperto agli attacchi pungenti del freddo e come il giorno, il ricordo fatica nel grigio a compiere le scelte necessarie a forgiare e a distinguere un'identità

Moloch Alexander Sokurov
Production Zero Film
Director Alexander Sokurov
Screenplay Yuri Aarabov, Marina Koreneva
Editing Leda Semjonowa
Photo Alexei Fedorov
Decor Sergei Kikovkin
Costume Lidija Krjudova
Cast Elena Rufanova, Leonid Sokol, Vladimir Bogdanov, Elena Spiridonova, Leonid Mosgovol Running time 102 min

Moloch (2000) e' una commedia surreale sulla relazione tra Hitler ed Eva Braun. Sukorov gioca con garbo con i due personaggi e la storia. Hitler ne esce parzialmente riabilitato: e' certo un pazzo ed un megalomane, ma non uno sterminatore di Ebrei. E molto piu' umano del consueto. Il film in realta' e' basato principalmente su Eva, una donna sola che ama davvero Hitler e non riesce a trovare altro significato nella propria vita. E' mostrata spesso in solitudine, pensierosa, sullo sfondo di una magnifico scenario naturale. Eva, nuda, passeggia attorno ad una villa sulla cima di una collina, circondata dalla nebbia. Corre e saltella sulla veranda e cammina persino sull'orlo di un dirupo. Qualcuno la sta guardando con un binocolo. Eva ritorna nella sua stanza, si veste, mette su un disco e balla da sola. Del trambusto al piano di sotto annuncia l'arrivo di Hitler e Goebbels. Salgono alla villa in ascensore. La moglie di Goebbels, Magda, e' una cara amica di Eva (probabilmente l'unica amica che ha). Goebbels in persona e' un uomo mingherlino ed insicuro, che si entusiasma facilmente e cerca sempre di compiacere il Fuhrer. Questi odia quel Martin, un grassone il cui solo compito sembra essere quello di ordinare alla segretaria di prendere appunti. Ora che la nebbia si sta diradando, appare un meraviglioso paesaggio. Eva e' ignorata da Hitler, gentile ed affabile con gli amici ed il personale, mentre a letto e' isterico, paranoico, ipocondriaco. Crede di essere malato e di essere in punto di morte. Eva e' l'unica che osa contraddirlo. I padroni di casa e gli ospiti si riuniscono per la cena. Hitler e' un ospite meraviglioso. La segretaria prende appunti di ogni cosa detta, anche delle battute piu' sciocche. Poi all'improvviso Hitler cade in delirio e_ si addormenta. Quando di sveglia, tutto il gruppo esce all'aperto per un pic-nic improvvisato. Goebbels vuole andar a caccia di farfalle, ma non ce ne sono. Hitler va a defecare tra le rocce. Il gruppo e' tanto stupido che persino i soldati sono in imbarazzo. Un prete viene a trovare Hitler, per chiedergli clemenza a favore di un disertore, ma Hitler manifesta poco rispetto per la Chiesa. Piu' tardi guarda un documentario di propaganda, mentre Eva e' all'aperto da sola, a guardare il tramonto. Magda chiama il marito "uno scrittore mancato". Eva parla di Auschwitz, mentre Martin nega l'esistenza di un posto del genere ed Hitler sembra non saperne nulla. Viene servito nuovamente il pasto, Eva flirta con Martin. Dopo un offensivo discorso di Hitler Eva abbandona la stanza. Hitler la trova in bagno con una pistola in mano. Hitler va di nuovo in delirio ed Eva lo prende a calci. Iniziano a rincorrersi attraverso la stanza come dei bambini. Poi Eva confessa di amarlo teneramente. Hitler e gli ospiti partono la mattina presto e lasciano Eva sola ancora una volta.

A film about Eva Braun and Adolf Hitler directed by a Russian using Russian actors speaking dubbed German sounds rather implausible. But Alexander Sokurov is not an ordinary Russian director. Among his 30-plus credits as a director is a 10-minute montage-documentary titled Sonata For Hitler, made 20 years ago. On the making of Moloch he offered these comments: "These people, the people of power, turned their lives into theatre. Guided by a myth, they conceived and modified their lives, staged real mise en scène and subordinated their behaviour to rituals and ceremonies.


This pattern is by no means unique, and Hitler was not exceptional. It's a common occurrance that grandiose shows driven by vanity end up in the dustbin of history."

Of the three Russian stylists once named as "rightful heirs" to the art cinema of Andrei Tarkovsky - Ivan Dykhovichny, the late Alexander Kaidanovsky, and Alexander Sokurov - only Sokurov's cinema has survived the test of time. Always searching for new ways to employ the language of cinema, he probes the human experience through the eyes of a sceptic and pessimist. One meeting with Alexander Sokurov is all that's needed to feel that down deep he's a restless man, a film-maker who invites controversy by the very choice of his themes, an artist who will talk circles around the meaning of his films rather than offer any kind of direct answers that may come back later to haunt him.

Born in Siberia into a military family that was always on the move, he spent his childhood in Poland, his youth in Turkistan, and his university years in Gorky and Moscow before settling down in St. Petersburg to work at the Lenfilm Studios on documentaries and feature films. When his diploma film at the Moscow Film School (VGIK), The Lonely Voice Of Man (1978), was rejected by school officials as being too negative and pessimistic, Andrei Tarkovsky was among those who spoke out in his defence. Moving on to Leningrad (today St. Petersburg) to make Lenfilm his permanent base, Alexander Sokurov spent most of the 1980s fighting to get his films released - as opposed to being completely banned, and the negatives destroyed. In the case of The Summer Of Maria Voynova, or Maria (1978/88), a portrait of an exploited woman labourer on a collective farm, he had to wait a decade for his film to be released in its uncut version. His literary homage to George Bernard Shaw, Painful Indifference (1983/87), had to be pieced together from a partially destroyed negative when it was presented at the Berlinale.

Most critics have nothing but praise for his cycle of poetic "elegies" - seven to date on key personalities in Russia and the ex-Soviet Union - and a pair of recent interview documentaries: The Knot (1998), a 90-minute interview with Alexander Solzhenitsyn, and Confession (1998), in which young Russian sailors openly speak their mind. But it was his haunting feature film Mother And Son (1997), a poignant sketch of a son's undying love for his mother as he carries her to a resting place before she breathes her last breath, that confirmed his status as one of Russia's leading film-makers. Programmed at last year's Forum of Young Cinema in Berlin, the Russian-German co-production (via Berlin partner Zero Film) provided the stylistic design and visual imagery for the filming of Moloch.
When Sokurov first conceived the film - originally to be called The Mystery Of The Mountain - all he knew for certain was that it would focus on a single day in the lives of Hitler and Braun while they stayed at the Führer's Alpine retreat in Berchtesgaden during the late spring of 1942, a couple of months before the German defeat at Stalingrad. He approached the task from a moral viewpoint. "For a Christian it's through love that one finds the essence of salvation," he says. "But can one save one's soul by loving a monster? That's the question that troubled me the most. Eva Braun, according to existing memoirs, was capable of sacrificing herself for love. Because of this, she was doomed for a tragic existence. She is the real main character of the film."

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